Nessuno mi sa giudicare

Foto - Randy Adams via Flickr CC BY-SA 2.0
Foto – Randy Adams via Flickr CC BY-SA 2.0

 

Uno dei maggiori problemi che riscontra chi opera nel digitale e in generale nel campo dell’innovazione tecnologica è quello di far comprendere il proprio lavoro, le opportunità (ma anche i rischi e le difficoltà) che offre, la necessità di adeguarsi a un mondo che – ormai da anni – sta evolvendo rapidamente, cambiando il modo, i linguaggi e gli strumenti per competere in ogni settore. Questo a tutti i livelli: dal proprietario del piccolo esercizio commerciale al professionista, dal dirigente di una piccola e media azienda o di un ente pubblico, dal fondatore di un’associazione no profit al manager di una multinazionale.

È un digital divide culturale, barriere all’entrata costruite sull’ignoranza (intesa, nel migliore dei casi, come non conoscenza).

Come spesso ripeto ci sono tre tipologie di possibili clienti o di referenti di progetti legati all’innovazione tecnologica e in particolare alla Rete, al web, ai social media.

 

  • Il cliente “Eh?” – Colui che quasi non conosce  Internet, il web, i social media e  li usa ad un livello men che basico. Per questa tipologia di cliente anche le email sono un oggetto semi-sconosciuto che crea ancora delle difficoltà. In questo caso, anche spiegando e rispiegando in maniera semplice e con esempi concetti e strategie l’interazione risulta difficilissima.
  • Il cliente “Ci penso io” – Colui che utilizza il web e i social network in maniera superficiale; di solito il suo ingresso in Rete è coinciso con l’iscrizione a Facebook per cui l’utilizzo si riduce a ricerche, visione di foto e video e gestione del suo profilo. Se possibile, qui la situazione è ancora più complessa: il cliente crede di saperne  molto, ha aperto persino il profilo (non la pagina…) Facebook per la sua azienda, ha un sito web statico fattogli dal figlio del vicino sette od otto anni fa, quindi immagina di non avere bisogno di altro.
  • Il cliente “Dimmi qualcosa che io non so” – L’utente avanzato, che quindi DAVVERO non ha bisogno dei tuoi consigli. Si scherza, ovviamente rientra in questa categoria chi è consapevole di doversi affidare a professionisti per determinate strategie, attività, progetti così come lui fornisce al mercato le sue competenze, esperienze, prodotti.

 

Chi  lavora nel settore digitale legge e ascolta quotidianamente discorsi e appelli sull’urgenza di far aumentare consapevolezza e di conseguenza il livello di digitalizzazione in ogni livello e in ogni settore dell’economia e della società italiana; ma bisogna rendersi conto che la stragrande maggioranza degli italiani, giovani compresi, non legge, non ascolta, non vede e in fin dei conti non è interessato a questi argomenti, ai racconti di chi ci sta provando (startup in primis), alle sollecitazioni che provengono da più parti per “darsi da fare” nell’aggiornamento di se stessi, delle loro attività, del sistema Italia.

 

La loro refrattarietà è dovuta a più cause; a mio avviso è un’insieme di mancanza di cultura (anche di base), di scarsissima inclinazione all’aggiornamento delle proprie conoscenze professionali e non (spesso ferme all’università o alla scuola superiore), di pigrizie mentali, di interesse nel far sì che tutto rimanga bloccato e stagnante (perché mettere il POS o addirittura possibilità di pagare i miei prodotti/servizi online se poi tutto diventa “tracciabile” e mi è impossibile fare evasione fiscale? Meglio contanti, no?).

 

Un’altra cosa che ho notato è una limitata capacità di riconoscere la competenza altrui e di conseguenza del suo “valore economico”: ammesso che l’interlocutore sia competente nel suo lavoro (e non sempre capita), al di fuori del suo orticello – o della sua zona di sicurezza se volete – non è in grado di fare valutazioni anche sommarie su quanto gli viene proposto e quindi non può comprendere né i benefici né i costi necessari per mettere in piedi progetti anche semplici come un sito web.

 

Accade in tutti settori, ma in quello del digitale questa incapacità è una specie di pandemia.

 

Se ne parla spesso tra addetti ai lavori di questa “cecità”, per esempio in questi post di Luca Orlandini e di Riccardo “Skande” Scandellari; si sottolinea che la conseguenza diretta è un gara al ribasso, di prezzi e di qualità (e conseguentemente un’escalation di sciatteria e improvvisazione). Però è anche vero che il cliente inconsapevole può esser disposto a pagare prezzi molto alti, sovrastimati rispetto all’entità e agli obbiettivi del progetto, solo perché chi glieli propone promette miracoli (in un lampo…) oppure è una grande società riconosciuta come “famosa” (non importa quale sia l’effettiva qualità e rapporto costi/benefici che propone per le sue offerte standardizzate).

 

Finita la pars destruens, cerchiamo di capire come migliorare questa situazione.

 

Ho sempre pensato che chi si occupa di innovazione non può prescindere dal compiere un’opera educativa (o, se par troppo paternalistica, di informazione e divulgazione) che vada oltre l’aspetto puramente economico della propria attività. Far sì che il racconto del mondo digitale circoli nella propria rete sociale (famigliari, amici, conoscenti, colleghi), nel proprio territorio, online e offline aiuta in due modi: direttamente, facendosi riconoscere come esperto e come possibile risorsa e contribuendo a formare un ambiente fertile, o, almeno, ricettivo.

 

Parlare, far discutere, diffondere informazioni sulla cultura digitale è chiaramente l’unico mezzo per recuperare un gap pesante (tra i tanti): solo per citare un dato, l’analfabetismo digitale – secondo un rapporto Censis citato da DataMediaHub, tocca punte del 48% nelle regioni italiane (e comprende una bella fetta di coloro che dovrebbero essere nativi digitali…).

 

Non tutti, ma molti degli eventi e degli incontri legati all’innovazione, alle startup, ai nuovi media sono spesso autoreferenziali ed interessano sempre le stesse persone (me compreso). Partire più dal basso (espressione abusata, lo so…), dai territori può essere una strada da percorrere con più decisione. Per questo guardo con interesse all’iniziativa dei “Digital champions“, iniziativa dell’Unione Europea e rilanciata in Italia dalla nomina di Riccardo Luna: trovo interessante e teoricamente efficace l’idea di una squadra di “agenti” volontari, indipendenti e distribuiti sul territorio per accelerare l’opera di alfabetizzazione digitale, in contatto tra di loro, con i cittadini e con gli amministratori pubblici. Come dice Alberto Cottica, un’opera capillare di sensibilizzazione e di “moral suasion“, un “piano Marshall” digitale di cui l’Italia ha davvero bisogno.

6 commenti

  1. Bellissimo aricolo, fotografa una realtà comica del tutto italiana in cui si confonde il “cantinaro” con la grandissima impresa con costi di gestione anche onerosi, ma assistenza quantomeno garantita a parole, con tutto cio che sta nel mezzo (piuccole imprese anche innovative).
    di norma si vuole un livello “top” come grafica, database, interazione a prezzi di poche centinaia di euro.
    quasi nessuno capisce che come nelle automobili ci sono i bidoni, le modeste utilitarie che vanno, le auto belle, i suv e le supercar con prezzi e prestazioni diverse

  2. Grazie Mauro. Ieri pensavo che l'”educazione al digitale” dovrebbe seguire il percorso dell’educazione alimentare: solo con una continua opera di informazione e di scambio informativo a tutti i livelli si è riusciti a migliorare – a partire dagli inizi anni ’80 – la qualità dei prodotti enogastronomici (industriali e artigianali) e le abitudini alimentari degli italiani.

  3. purtroppo anche grandi aziende, che magari spendono follie per software discutibili, di fronte a piccole realtà che fanno software serio e affidabile pretenderebbero di lavorare a 100-200 euro al giorno e con assistenza annuale di 200-300 euro.
    In realtà poi con stupore ci si accorge che roma pagava l’office e magari windows a 5000 euro o che certi prodotti costavano milioni, pagati senza battere ciglio e mai usati in realtà.
    Poi se si fa una gara seria gestita si vedono sconti, su prezzi “veri” del 50% da parte delle stesse aziende, ma non si è più simpatici dopo…

  4. In Gran Bretagna da quest’anno si inizia a programmare dall’età di cinque anni, ma mi interessava segnalarvi anche questo video: https://www.youtube.com/watch?v=nKIu9yen5nc

  5. Grazie Daria, fornire elementi di programmazione fin dalle elementari permette, oltre che dare le prime basi di alfabetizzazione digitale, di creare sempre più persone in grado di scrivere codice e quindi di “crearsi” il proprio futuro e non solo di utilizzare strumenti informatici scritti e realizzati da altri.

  6. Credo che se anche tutti sapessero programmare ci sarebbe sempre spazio per chhi è più bravo o più capace di portare il cuore del messaggio ai clienti, io mi repouto capace di parecchie cose ma non so fare cose accattivanti graficamente. Onestamente però delle volte non faccio tanto peggio di presunti professionisti, ma disto 1000 miglia da creativi e grafici.
    Anche come idee spesso ci si accorge che qualcuno è davvero davanti a tutti come idee (walter ad esempio) ma altrettanto spesso il mercato preferisce strategie più conservative

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