Anche i trekkisti inquinano, tutta colpa dei PFC

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Cosa c’è di più entusiasmante ed ecocompatibile di una bella camminata in montagna? Serve solo tanta voglia di scarpinare e sudare, amore incondizionato per la natura e una attrezzatura adeguata: scarpe tecniche da trekking, pantaloni e magliette tecniche traspiranti, giubbotti antivento e che isolino dal freddo (perché, si sa, in alta montagna anche in piena estate si battono i denti). E ovviamente una macchina fotografica per immortalare questi momenti.

Ebbene, i trekkisti, anche quelli più diligenti, sono portatori inconsapevoli di inquinamento in zone che, nell’immaginario collettivo, dovrebbero essere incontaminate. O almeno, questo secondo Greenpeace che, nel suo ultimo studio, punta il dito contro il vestiario usato dai trekkisti che nella maggior parte dei casi contiene il PFC.

Insomma, l’uomo come la fa la sbaglia.

Cosa sono i PFC

Struttura molecolare dell'acido Perfluoroottanoico - Immagine dall'ISS
Struttura molecolare dell’acido Perfluoroottanoico – Immagine dall’ISS

 

Sul sito di Greenpeace c’è una lunga ed esauriente specifica sui PFC.

I PFC sono composti organici di sintesi: non esistono in natura e sono caratterizzati da un’elevata persistenza generata dal forte legame chimico tra atomi di fluoro e carbonio che è alla base della loro struttura molecolare . Possono essere suddivisi in due gruppi principali, a catena lunga e a catena corta, in base al numero di atomi di carbonio che li costituiscono. Queste sostanze sono largamente usate, da più di sessant’anni, in numerosi processi industriali. In particolare, vengono impiegati per la produzione dei più comuni capi di abbigliamento e attrezzature outdoor e, nello specifico, nelle finiture impermeabilizzanti e antimacchia. [inlinetweet prefix=”#greenpeace #trekking” tweeter=”” suffix=””]I PFC sono sostanze pericolose, a causa della loro persistenza e difficile biodegradabilità[/inlinetweet]. Una volta rilasciati, si degradano molto lentamente in natura, restando nella forma originale per diversi anni e disperdendosi su tutto il globo. L’industria dell’outdoor non è l’unica fonte di PFC, ma è l’esempio più visibile di come essi vengono utilizzati. Queste sostanze possono essere rilasciate nell’ambiente durante le fasi di produzione, trasporto e stoccaggio ma anche dai prodotti finiti. Possono essere presenti sia negli scarichi industriali che in quelli domestici, e, inoltre, non tutti i PFC possono essere rimossi dalle acque di scarico tramite impianti di depurazione. Quando i prodotti contenenti PFC vengono smaltiti in discarica, tali sostanze possono poi contaminare le falde acquifere e le acque di superficie. […] Alcuni PFC generano effetti negativi sia sul sistema riproduttivo che ormonale e favoriscono la crescita di cellule tumorali.

Lo studio di Greenpeace

Spedizione di Greenpeace ai Laghi di Pilato (Parco Nazionale dei Monti Sibillini) - Immagine da Umbria24
Spedizione di Greenpeace ai Laghi di Pilato (Parco Nazionale dei Monti Sibillini) – Immagine da Umbria24

 

Greenpeace, nel mese di maggio e giugno 2015, ha organizzato otto spedizioni diverse composte da altrettanti team che hanno raggiungo luoghi remoti del pianeta, ma ugualmente accessibili. Hanno raccolto acqua da laghi con bassissima probabilità di essere contaminati.

Le spedizioni hanno raggiunto i Monti Haba (Cina), i Monti Altai (Russia), i Laghi di Macun (Svizzera), gli Alti Monti Tatra (Slovacchia), il Parco Nazionale di Torres del Paine (Cile), i Monti Kaçkar (Turchia), nella località di Treriksroset (Scandinavia, al confine fra Svezia, Finlandia e Norvegia) e i Monti Sibillini (Italia).

Per quanto riguarda la spedizione italiana, hanno prelevato campioni di acqua e neve dai Laghi di Pilato.

Per la raccolta dei campioni sono state rispettate le seguenti condizioni: presenza di neve fresca, ossia depositatasi nell’ultimo inverno, e soprattutto intatta, con assenza di contaminazione locale come insediamenti, attività sciistiche, sentieri di escursionismo, bestiame, traffico e industrie.

Tutti i team erano equipaggiati con capi d’abbigliamento privi di PFC.

Il rapporto di Greenpeace spiega che

i PFC a catena lunga come l’acido perfluoroottanoico (PFOA) e il perfluorottano sulfonato (PFOS), utilizzati in grandi quantità nella produzione tessile negli anni scorsi, sono una seria minaccia ambientale a causa della loro tossicità e per questo motivo sono stati ritirati dalla produzione in diverse nazioni. Ciononostante, alcuni scienziati prevedono che le concentrazioni di queste sostanze continueranno a crescere anche oltre il 2030. Ciò è dovuto, da un lato, alla loro difficile degradabilità e persistenza che determina concentrazioni ambientali relativamente elevate, dall’altro al fatto che possono anche formarsi come risultato della ‘decomposizione’ di altri PFC che oggi continuano ad essere utilizzati in grandi quantità come loro sostituti.

 

Tutti i campioni di neve spediti in laboratorio hanno mostrato la presenza di PFC. Quelli prelevati ad alta quota (oltre i 5.000 mslm), sui Monti Haba in Cina, hanno mostrato una concentrazione più bassa. Quelle più alte sono state riscontrate nei campioni provenienti dai monti Tatra in Slovacchia, sui monti Sibillini (Lago di Pilato, Italia) e sulle Alpi (la regione dei laghi di Macun in Svizzera).

Inoltre, nei Laghi di Pilato sono state riscontrate le maggiori concentrazioni di PFNA (PFC a catena lunga) e anche il più alto contenuto di altri PFC nei campioni di neve.

Per quanto riguarda i laghi, sono stati raccolti sette campioni, dei quali sei risultati contaminati da PFC.

Questa ricerca ha dimostrato chiaramente che gli angoli più remoti del pianeta sono largamente contaminati da questo composto, che si muove nell’atmosfera, sia in forma gassosa che legato alle particelle che costituiscono il pulviscolo atmosferico, fino a depositarsi sulla terra con la pioggia o con la neve.

I PFC nell’abbigliamento outdoor

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Immagine da negozislalom

 

L’abbigliamento outdoor è in forte espansione e i PFC vengono usati in grandi quantità in trattamenti idrorepellenti e anti macchia.

Greenpeace, nel suo rapporto, dichiara:

I produttori di attrezzatura outdoor sono consapevoli della contraddizione legata all’utilizzo di sostanze pericolose, proprio per quei paesaggi che più interessano la loro clientela, e sono preoccupati per la loro immagine. Essi sostengono di aver dato una risposta adeguata al problema della contaminazione ambientale da PFC sostituendo alcuni dei composti più nocivi come i PFC a catena lunga (tra cui i PFOA e i PFOS) con quelli a con catena corta. Purtroppo, anche questi composti chimici, altamente persistenti, possono ulteriormente aggravare il problema legato all’inquinamento da PFC. Tra l’altro, per garantire le stesse prestazioni “tecnologiche” dei composti a catena lunga, si usano quantità maggiori di PFC a catena corta e siccome alcuni di essi sono particolarmente volatili, ne deriva che il settore sta disperdendo, nell’acqua e nell’aria di tutto il globo quantitativi notevoli di queste sostanze.  Alcune aziende outdoor più piccole come Paramo, Pyua, Rotauf, Fjällräven e R’ADYS hanno già lanciato intere collezioni di abbigliamento impermeabile prive di PFC. Al contrario, aziende leader del mercato globale come The North Face, Columbia, Patagonia, Salewa e Mammut hanno dimostrato scarso senso di responsabilità e fabbricano prodotti che sono resi idrorepellenti utilizzando, quasi esclusivamente, grandi quantità di PFC. Marchi come Jack Wolfskin e Vaude hanno solo una piccola selezione di prodotti privi di PFC.

In virtù di quanto dichiarato da Greenpeace, abbiamo provveduto a contattare due aziende di abbigliamento outdoor: la virtuosa Fjällräven e la “colpevole” Patagonia. Eppure proprio la Patagonia ci ha prontamente risposto per spiegare in che modo stia già provvedendo allo studio di nuove linee prive di PFC.

Pinguino chiama, Patagonia risponde

Alla nostra richiesta di dichiarazioni in merito allo studio di Greenpeace sui PFC e sui programmi futuri, la Patagonia ci ha rimandato al suo sito.

In breve, spiegano che Patagonia usa i PFC in quanto molto efficaci. Pur ammettendone la tossicità per l’ambiente, negli ultimi dieci anni l’azienda ha studiato e testato ogni alternativa possibile al PFC. Alcune soluzioni usate, come cere e siliconi, si sono dimostrate poco efficaci e tali da ridurre la durata effettiva dell’abbigliamento.

Quindi, attualmente, Patagonia ha optato per una soluzione temporanea, passando dal C8 al C6, ovvero a catena più corta, che è sempre della famiglia dei PFC, ma con tossicità inferiore.

Nel frattempo il reparto ricerca continua a sperimentare soluzioni PFC free, e idichiara inoltre di aver recentemente investito 20 milioni di dollari in una società svizzera, la Beyond Surface Technologies, per la ricerca di materiali rispettosi dell’ambiente.

Basterà?